“Do you prefer icecream or gelato?” Questa è una domanda comune, che un americano può rivolgere a un italiano con sincera curiosità. Tu, visibilmente dubbioso, ti domanderai nell’ordine: (a) ha detto “gelato” o “cheesecake”? (b) ha detto “icecream” o “pasta al ragù”? (c) Ma perchè? Qual è la differenza tra icecream e gelato???
Nel tuo corso del British Institute, nessuna; sul tuo palato, un abisso.
Il gelato: lo conosciamo fin da bambini, è uno sfizio fresco e cremoso, piacevolmente zuccherino che delizia le papille gustative con un sapore delicato e leggero. Educato. Si abbina alle torte, alle macedonie, e si può decorare con elementi scrocchiarelli come biscottini, oppure con cremine al cioccolato o alla frutta. L’icecream: per contro, è una massa, fredda e dolce all’inverosimile. Sa prevalentemente di grasso e ha il peso specifico di una colata di calcestruzzo, nonché analoga consistenza. Sfrontato. Si abbina alla coca-cola e ad altre bibite gassate, si presenta spesso addizionato con elementi elastici e pastosi che generalmente si incollano ai denti finché non intervieni con lo scovolino.
Ma non è solo lui, è tutta l’esperienza che ruota attorno al gelato che è un’altra cosa.
Per l’americano medio il gelato è quello di Ben&Jerry, che prelevi dal supermercato, trovi in freezer dopo cena e te lo scofani per intero di fronte a un televisore dimensione multisala, col cucchiaio dimensione ramaiolo, direttamente dal barattolo di cartone dimensione pentola a pressione.
Per l’americano sofisticato, che comunque non disdegna l’abitudine sopracitata, esistono però anche le gelaterie. Tuttavia, non è che il gelato è una cosa “da passeggio”, passo in gelateria e mi prendo un cono tornando a casa. NO. *Primo*, gli americani NON passeggiano. MAI. È una regola non scritta ma ben impressa nell’identità di ogni singolo individuo che compone questo popolo bizzarro. *Secondo*, in America sono sprovvisti di spazi pubblici analoghi ai nostri centri abitati. Anche se, per assurdo, un americano venisse preso dal raptus della passeggiata, o si fa una scampagnata nei prati oppure cammina sul ciglio della highway. *Terzo*, le gelaterie, assomigliano più a un centro commerciale che a un negozio monoprodotto e offrono una gamma di attività e servizi di fronte ai quali non puoi far altro che restare paralizzato nell’imbarazzo della scelta. Eri venuto per prendere la tua coppetta da due palline, ma improvvisamente vedi un muffin, poi ti scappa l’occhio su una fetta di torta, ti rendi conto che forse se mi faccio due pancake come mi suggeriscono qua sul menù, magari a questo punto ci andiamo di sandwich e il gelato dopo, forse mi fermo per mangiare dai, però in effetti una maglietta brandizzata con berrettino ci sta anche… ti senti in un girotondo di emozioni, le meningi iniziano a pulsare, quando uno apre il frigo delle bibite (???) e un brivido alla schiena ti risveglia da questo status di semi-deficienza: “ma il gelato dove minchia è?” *Quarto e ultimo*, andare a prendere il gelato di per sé è un viaggio, per cui fa triste che arrivi, prendi e te ne vai (per andare dove, poi? Che non c’è uno straccio di marciapiede o panchina…). Già che hai fatto lo sforzo di arrivarci, in gelateria, a questo punto ci resti anche per un tot. Altrimenti non ha senso e potevi startene sul divano con Ben&Jerry.
Quindi, “mamma vado in gelateria” avviene nel seguente modo.
Prendi la macchina, guidi per un dieci-quindici minuti. Arrivi e posteggi l’auto in uno dei diversi parcheggi ad uso esclusivo della gelateria. Conta in media una disponibilità di una cinquantina di posti, quindi take-it-easy, non ti deve venire il panico del parcheggio, ci arrivi rilassato che di posto ce n’è e in più ti stiamo costruendo anche un parcheggio nuovo al di là della strada che garantirà il +35% di posti (e te lo diciamo con cartelloni pubblicitari, mica nell’orecchio)! Yeah, vai tranqui! Entri e ti metti in fila. Una fila chiaramente ordinata, con le corsie ben scandite da un filo rosso che guida il flusso. Qui hai tempo per guardarti intorno e scorrere con l’occhio una quantità di prodotti da capogiro.
Si parte dal menù della “weekday breakfast” che propone smoothies per i salutisti, oatmeal per i tradizionalisti, pancake per i golosi serviti singoli in coppia o in trio, vegani e/o senza glutine per i diversi, proposti anche in composizioni fantasiose, tipo con gelato al caramello salato, oppure con pezzi di cioccolato e cookie dough, uova con la carne, con la salsiccia, con il bacon, con l’English muffin, la torta salata, il burrito, oppure panini con cavolo all’aglio e formaggio di capra, ma anche con tofu marinato e marmellata alla pesca e zenzero.
Ma metti che sei arrivato tardi e ti va di più un “weekday lunch”. Qui puoi scegliere tra zuppa del giorno, una serie di insalate da inondare di condimento balsamico, con succo d’acero e senape, con maionese e blue cheese, salsa ranch o green goddess (la dea verde, che preferiamo lasciare al mondo dell’iperuranio per adesso); ma anche avocado toast, bacinelle di verdure e germogli, una selezione più copiosa ancora di panini; per i più affamati si serve anche Mac and Cheese, hamburger o petto di tacchino con pomodoro, rosmarino, pesto e formaggio alla griglia.
Ma metti che sei arrivato di domenica. Visto che la differenza tra breakfast e lunch è più nel nome che nella sostanza, ma facciamoci un bel “weekend brunch”! E inizia un viaggio di sapori tra piatti dai titoli altisonanti come “Banana Fosters” o “Chai” (che non era un tè all’indiana?) al lato di cui non può mancare un side come “Fakin’ Bacon”, “Sausage Patty” o “Lemon Vanilla Yogurt”. Se sei pigro e ti affidi alla creatività degli chef nostrani, potrebbe piacerti un “Morning Zest” o un “Wakey, Wakey, Egg and Bacey”. E cala un alone di mistero.
Per lavare tutto questo: caffè, tè, succo di frutta, limonata o un bel bicchiere di latte… che tanto qui fanno il gelato, mi han detto, se gli avanza un fondo me lo allungano volentieri.
In effetti, a una certa, scorrendo una vetrina stracolma di biscotti, pie e cake, per sbaglio, ti cade l’occhio su una esposizione di indizi quali coppette, scodelle e scatoloni, ma anche cialde biscottate che vanno dalla capienza di una tazza e quella di un cono stradale e ti dici “ah, già, vero: il gelato!”
Fai un salto alla toilet, per prepararti al meglio a come scegliere tra milkshake & sodas e sundaes. Il frappé a base di gelato e latte è una banalità che non vale nemmeno la pena di offrire. È curioso, piuttosto, mixare ingredienti pericolosamente chimici come il tè verde con il gelato alla vaniglia, il succo d’arancia con il gelato alla crema, il succo di mela con il gelato alla cannella. Si può anche optare per coca-cola o ginger beer su cui adagiare un gusto di gelato a scelta… et voilà, il tocco frizzantino è servito! Il sundae, invece, si presenta un po’ come la riproposizione della nostra coppa gelato. Ci porta però oltre, in un voluttuoso boccone che combina la goduria dell’icecream a salse, croccantini, topping e “spruzzatine” di dubbia natura. Salsa di fudge caldo, caramello, burro d’arachidi o marshmallow (?), su croccantini di noci, nocciole, mandorle, noci miste o noci spagnole (??), su topping di M&Ms, Oreo, Reeses o orsetti gommosi (???), su una spruzzatina di cioccolato o “arcobaleno” (ho finito i punti di domanda, ma arcobaleno in che senso). Il tutto decorato dalla intramontabile ciliegina candita su panna, mentre questa coppa in effetti ha assunto le sembianze e dimensioni di una torta.
Però no, tu combatti per andare sul classico delle palline, che qui hanno le dimensioni circa di una palla da baseball e assicuro che se le lanci e c’è uno che le ribatte con una mazza possono raggiungere una buona gittata. Una pallina americana equivale a tre palline italiane. Quando si sono scambiati le ricette, devono essersi capiti male coi pesi e le misure (vedi Odissea part 5). Comunque, in base alle tue forze, puoi liberamente opzionare: junior (mezza palla), one, two o three scoop, ma non c’è tre senza… il “quart” (una cosa tipo un chilo di gelato), ma se non te la senti puoi andarci di “pinta” (la metà del quart). Tu scegli la stazza e poi i gusti. Un semplice stracciatella, cioccolato, mandorla, pistacchio non sa di niente, te lo mangi in Italia. Qui scorri un altro menù a cascata, i tuoi occhi rotolano tra bulldog crunch, chocolate debris, cookies and cream, granny caramel apple, pumpkin praline e molti molti altri.
Sei esausto, ne scegli due a sentimento perché hai paura a chiedere gli ingredienti che, da un lato, potrebbero non essere raccomandabili e, dall’altro, potrebbero tradursi in una lista lunga interminabili minuti e intoppare la coda. Vai, chiudi gli occhi e pronunci a colpo sicuro maple nut e mocha chip, che potrebbero sembrare due buoni amici come chip e chop o yogi e bubu, ma anche un duo jazz o una coppia di mafiosi a New York. E prendi il numero.
Ti rimetti in coda al banco “Pick up here” dove una freccia luminosa segnalerà l’arrivo del tuo ordine. Nell’attesa, cominci a perdere la sensibilità alle estremità, tanto è il freddo prodotto dall’impianto di condizionamento. L’intero negozio, non solo il comparto gelati, pare una cella frigo. Una volta sentito il tuo numero non ti sembra vero. Afferri l’oggetto del mistero, qualunque cosa sia, e guadagni una seduta, giusto per rinfrancarti qualche minuto. Quel tempo che basta per renderti conto che intorno a te è un brulichio di gente che staziona bellamente in tutta comodità, chi è col partner, chi con l’amico, chi col telefono, o col laptop. Molti sono proprio accomodati al tavolo e sfogliano il menù del brunch, pranzo o colazione. Rimiri il tuo agognato gelato, accarezzi questo contenitore come Aladino la sua preziosa lampada e speri ardentemente che esca un genio a svelarti una risposta sopra tutte. Perché poi, la vera domanda è: ma, in gelateria, ci vai al mattino?